Da bambina, presa dal tumulto della separazione dei miei genitori, il mondo mi sembra spesso un gigantesco puzzle in cui non riesco a trovare il mio pezzo. Sono sullo sfondo, un osservatore silenzioso delle battaglie combattute in mio nome, ma senza la mia voce.

L’aula di tribunale, dicono, è un luogo di giustizia, dove il “miglior interesse” dei bambini come me dovrebbe essere la bussola che guida tutte le decisioni. Ma la bussola sembra rotta. La lista di controllo appesa al muro spunta a favore di tutti gli altri: studi legali, magistrati, mediatori, psicologi. Tutti annuiscono, sono d’accordo e vanno avanti con un senso di proposito e di rettitudine. Ma sotto i segni di spunta si nasconde una verità che solo io posso vedere, una storia che solo io posso raccontare.

Mia madre, una figura d’amore trasformata in una narratrice di sventure, intreccia storie di un cattivo. Mio padre, che conosco con sfumature diverse da quelle dipinte in tribunale, non è il mostro dei suoi racconti. Ma la sua voce è soffocata, proprio come la mia, dalla narrazione che lei fa in modo così convincente. Il martelletto suona e vengono prese decisioni che dovrebbero proteggermi e favorire la mia crescita. Ma la protezione è come essere avvolti in una coperta così stretta che diventa difficile respirare.

Sento le parole “miglior interesse” e mi chiedo se sanno cosa significhi veramente per me. Sanno delle notti che passo a fissare il soffitto, desiderando un mattino che porti la pace? Possono capire il linguaggio del mio silenzio, la supplica nei miei occhi quando guardo coloro che hanno in mano il mio futuro?

I tribunali, un luogo in cui la giustizia dovrebbe essere cieca, sembrano aver chiuso un occhio, ma non nel modo previsto. Sono accecati da storie, da pregiudizi, da un sistema che sembra dimenticare che al centro di tutto c’è un bambino che ha la sua storia, le sue paure e i suoi bisogni.

Se potessi dipingere il quadro per loro, mostrarlo attraverso i miei occhi, colorerei l’aula di domande. Disegnerei i giudici con orecchie abbastanza grandi da ascoltare il non detto e cuori abbastanza grandi da comprendere le complessità di una famiglia distrutta. Mi ritraevo non ai margini, ma al centro della tela, dove doveva esserci il mio posto.

In questo mondo in cui gli adulti prendono decisioni che indirizzano il corso della mia vita, mi chiedo se si ricordano che io sono qui, che sto guardando e imparando. E mentre il sistema ha lo scopo di proteggere, mi rimane un sussurro di speranza che un giorno qualcuno barrerà la casella accanto a “I NOSTRI BAMBINI”, agendo davvero nell’interesse mio e dei bambini come me, considerando le storie non raccontate che portiamo nel cuore.

Autore sconosciuto

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